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“Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale.”

Con queste parole, Lucio Dalla racchiudeva una verità essenziale: l’umanità si rivela nella sua bellezza più autentica proprio nelle imperfezioni, nelle fragilità, nelle emozioni che non si possono contenere. Sanremo 2025 ha raccolto questo testimone, raccontando la vulnerabilità non come un limite, ma come una forza capace di trasformare la musica in un’esperienza collettiva e catartica.

Eppure, sotto la guida di Carlo Conti, il Festival ha mantenuto un tono rassicurante, costruito con una precisione quasi didascalica, all’insegna di un’armonia fin troppo nazionalpopolare e paciosa. Una formula vincente, certo, ma che avrebbe potuto smorzare le voci più intime e incisive. E invece no. Perché la musica autentica, quella che nasce da un’urgenza espressiva vera, trova sempre il modo di farsi spazio.

E così, accanto alla vittoria del giovane Olly, che ha saputo interpretare al meglio i gusti della nuova generazione con un brano dal sound immediato, a emergere con prepotenza è stata la canzone d’autore. Quella che non ha paura di esplorare le debolezze, di raccontare il lato più umano della vita, senza filtri né retorica.

Fedez, Lucio Corsi, Bresh, Simone Cristicchi e Brunori Sas, artisti con percorsi e sensibilità diversissime, hanno saputo dare a questa edizione una profondità inaspettata. Ciascuno, con il proprio linguaggio, ha trasformato la fragilità in musica.

Con “Battito”, Fedez ha portato sul palco qualcosa che va oltre la musica: un pezzo di sé. Dopo un percorso che lo ha visto passare dal rap indipendente ai riflettori della pop culture, tra album di successo (Pop-Hoolista, Paranoia Airlines) e un’esposizione mediatica spesso ingombrante, Sanremo gli ha offerto l’occasione per lasciar parlare solo la musica. “Me lo ripeto, mi salverò / Ma intanto il battito rallenta, rallenta.” Un testo asciutto, diretto, che affronta la salute mentale senza retorica. È un vortice di pensieri che portano a “vedere nero pure il cielo”, talmente intrusivi da diventare deliri che riempiono il mondo circostante pieno di nemici, reali e immaginari “Le paranoie hanno bisogno di troppe attenzioni”, scrive Fedez. Il riferimento alla fluoxetina – antidepressivo spesso usato per i disturbi d’ansia – non è un vezzo, ma un segnale di onestà radicale: “Forse mento/Quando ti dico/Sto meglio”. E ancora la difficoltà del percorso terapeutico “Dottore cosa mi ha dato”, e gli ostacoli che si incontrano nella società che ci vuole perfetti e positivi: il rapper si sente infatti “Socialmente accettato/anestetizzato”.

E poi c’è la solitudine di chi vive sotto i riflettori: “Gli applausi fan rumore, ma il silenzio fa più male.” Per cinque sere, il frastuono del gossip si è spento. Con questo brano, Fedez ha ricordato a tutti che dietro il personaggio c’è un uomo.

Se Fedez si affida alla confessione diretta, Lucio Corsi sceglie un approccio più surreale e ironico con “Volevo essere un duro”. Il cantautore toscano, da sempre sospeso tra il folk e il glam rock, ha costruito un percorso raffinato (Bestiario Musicale, Cosa faremo da grandi?), in cui la musica è un gioco di specchi e metafore.

“Volevo essere un duro / Un robot / Un lottatore di sumo.”

Eppure, la maschera si sgretola subito:

“Però non sono nessuno / Non sono nato con la faccia da duro / Ho anche paura del buio.”

Dietro l’ironia si cela un messaggio profondo: la vera forza sta nell’accettare la propria fragilità.

E se il brano ha conquistato il pubblico per la sua dolcezza disarmante, piazzandosi al secondo posto e sfiorando la vittoria, il cantautore – rivelazione del Festival ha lasciato il segno anche nella serata dei duetti, con un’idea che ha sorpreso tutti: cantare con Topo Gigio. Un momento surreale e poetico, che ha reso ancora più chiara la sua visione della musica come gioco e libertà. La frase che ha pronunciato alla fine della performance, “Anche i topi possono volare”, è già diventata una delle più iconiche di questa edizione: una dichiarazione di leggerezza e di sogno, che racconta il suo mondo più di mille parole.

Bresh, tra le voci più evocative della scena urban italiana (Oro Blu, Che io mi aiuti), affronta la fragilità con una metafora potente in La tana del granchio. Il granchio, con la sua corazza, si rifugia nella tana per proteggersi dal mondo. Ma quella sicurezza può diventare una prigione. “Resto nella mia tana, dove nessuno può farmi male.” Ma nel ritornello si insinua il desiderio di uscire, di rischiare: “Ma che ci faccio qui, se fuori c’è il mare?” Una riflessione sulla paura di esporsi, ma anche sul coraggio necessario per scegliere la vita oltre il rifugio.

Se Bresh esplora il confine tra protezione e isolamento, Simone Cristicchi ci porta nel cuore della fragilità umana con Quando sarai piccola. Già vincitore di Sanremo con Ti regalerò una rosa, Cristicchi ha sempre trasformato la musica in narrazione (Abbi cura di me, Francesco, una vita d’artista), con un’attenzione particolare per la memoria e il sociale.

“Ti terrò per mano, come facevi tu.”

Un brano struggente, che racconta la relazione tra un figlio e una madre colpita da emorragia cerebrale, il capovolgimento dei ruoli, il tempo che si sgretola. Non c’è pietismo, solo un immenso atto d’amore.

Brunori Sas, cantautore capace di trasformare la quotidianità in poesia (A casa tutto bene, Cip!), porta a Sanremo una riflessione sul senso di appartenenza e sulla paternità con “L’albero delle noci”, che ha conquistato il terzo posto.

“È dura andarsene, è dura restare / La mia terra è crudele, mi stringe e mi vuole cambiare / Ma se parto mi manca, mi chiama e poi mi fa tornare.”

Il brano racconta il delicato equilibrio tra il desiderio di restare fedeli alle proprie radici e la necessità di guardare oltre. Ma “L’albero delle noci” non è solo una canzone sulla terra che ci lega: è anche un’intima riflessione sulla paternità. L’albero diventa simbolo di crescita, di memoria e di trasmissione, un ponte tra passato e futuro. Con toni delicati e malinconici, Brunori canta la responsabilità di chi genera una nuova vita e il timore di non essere all’altezza.

E poi c’è stato quel momento.

Nella serata finale, Giorgia, dopo essersi classificata sesta, ha ricevuto un tributo che è andato oltre la gara. Abituata a un controllo impeccabile della voce e delle emozioni (E poi, Di sole e d’azzurro), questa volta si è lasciata travolgere.

Le lacrime, il pubblico che non smette di applaudire, il silenzio che si carica di significato. Non c’era delusione, né sconforto. Solo la commozione di chi ha dedicato una vita alla musica e si è ritrovata, ancora una volta, abbracciata da un pubblico che non ha mai smesso di amarla.

Sanremo 2025 ha dimostrato che, anche in un festival dall’anima rassicurante, la musica vera trova sempre la sua strada. Che le verità dell’essere umano, le miserie, le paure e le ansie diventano arte capace di spiccare il volo. Ebbene sì, a volte, anche i topi possono volare.

Deborah Serratore

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