“Non ce la faccio più!”

Con queste parole, diventate iconiche nel silenzio disperato di una moglie esausta, si è aperto idealmente il processo immaginario a Furio Zòccano, celebrato nell’Aula “Antonino Scopelliti” del Tribunale penale di Palmi. Ma a essere giudicato, nell’ambito del Festival Nazionale del Diritto e della Letteratura, non era soltanto un personaggio cinematografico: sotto accusa è finito un intero sistema di relazioni affettive sbilanciate, basate sul controllo, la dipendenza e l’annullamento dell’altro.

 

Sul banco degli imputati, il celebre Furio di Bianco, rosso e Verdone (1981). A presiedere il processo, il giudice d’eccezione Fabio Canino, affiancato dal cancelliere Donatello Pisani, con Carlo Indelicati all’accusa e Antonio Salvati alla difesa. L’introduzione è stata affidata al critico cinematografico Eusebio Ciccotti, e la sessione si è svolta in memoria dell’avvocato Francesco Saletta.

 

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Ma più che un dibattimento, quello andato in scena è stato un viaggio nel tessuto più intimo della società italiana, tra norme arcaiche e statistiche spiazzanti, letteratura femminista e ironia tagliente.

 

“Presi singolarmente, certi atteggiamenti possono sembrare di buon senso, no? Ma messi assieme, ogni giorno, diventano un meccanismo totalizzante. Non aiutano l’altro, lo annullano”, ha dichiarato Canino.

 

“Se proprio vogliamo classificare la scala gerarchica della famiglia, iniziamo col mettere le persone più competenti in condizione di prendere decisioni”, ha aggiunto il giudice, portando numeri capaci di ribaltare stereotipi radicati.

Il 65% delle donne italiane ha almeno un diploma, contro il 60% degli uomini. Tra i laureati, le donne rappresentano il 23%, mentre gli uomini si fermano sotto il 17%.

E ancora: il tasso di occupazione femminile in Italia è fermo al 56,5%, ben lontano dalla media europea del 70,2%, e il reddito medio delle donne è inferiore del 42% rispetto a quello maschile. Numeri che parlano di una disuguaglianza strutturale, mascherata da normalità.

L’accusa ha contestato a Furio il reato previsto dall’articolo 572 del codice penale: maltrattamenti in famiglia. “Un 572 sputato”, ha dichiarato il PM Indelicati. “Furio è disturbato, ha un disturbo ossessivo-compulsivo che non lo giustifica, ma lo spiega. E noi dobbiamo agire, perché il danno che provoca è reale e sistemico”.

 

La difesa, affidata al magistrato Antonio Salvati, ha invece invitato a un cambio di prospettiva. Non per negare la sofferenza, ma per affrontare una lacuna che non è solo giuridica, ma prima ancora culturale. “Furio è un uomo fuori tempo, che ama in modo sbagliato, che impone anziché condividere, che crede di proteggere e invece soffoca. Ma la sua non è cattiveria, è inadeguatezza. Un’inadeguatezza che nessuna legge italiana oggi riesce a nominare, perché la manipolazione affettiva, non è ancora riconosciuta come reato”.

 

Un concetto, questo, che in molti altri Paesi europei ha già trovato spazio nei codici penali. In Francia, dal 2010, la legge riconosce come reato la violenza psicologica all’interno della coppia. In Spagna, la manipolazione relazionale è parte integrante del contrasto alla violenza di genere. In Italia, invece, tutto ciò resta sospeso, invisibile. “E come si può difendere un uomo da un’accusa che non ha ancora un nome, se non nella coscienza?”, ha concluso Salvati.

 

A sostegno di questa visione è intervenuto in videoregistrazione Carlo Verdone, che ha offerto una chiave intima e disillusa sul proprio personaggio: “Furio fa pena, fa rabbia. È destinato a rimanere solo. E non capisce che il suo modo di amare è diventato tossico”. Non se ne rende conto, eppure fa male. Come tanti.

 

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La sentenza, pronunciata da Canino, ha unito giustizia e pedagogia: “Dichiaro Furio Zòccano colpevole. Lo condanno a un anno di lavori volontari presso la Casa delle Donne a Roma. L’imputato dovrà inoltre leggere Gli uomini mi spiegano le cose di Rebecca Solnit, Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, il saggio dell’avvocata Roberta Rugara e guardare Il caso Braibanti.”

 

Infine, un richiamo politico e simbolico: “È stato appena approvato in Commissione un emendamento che cancella, nelle liste elettorali, l’aggiunta del cognome del marito a quello della moglie. È un dettaglio, ma anche da lì passa la giustizia. Perché tutto ciò che nomina, riconosce. E tutto ciò che si tace, uccide piano.”

 

Un processo immaginario, sì. Ma con conseguenze reali. Questa volta, Furio ha dovuto ascoltare. E quella voce che sussurrava “non ce la faccio più” ha finalmente trovato risonanza.

 

Deborah Serratore