pinakes2La fata-cavalletta dei pìnakes locresi

Gli archeologi, che fino ad oggi si sono cimentati nell’interpretazione sacrale e simbolica dei pinakes locresi, hanno riordinato il materiale fittile votivo, rinvenuto da Paolo Orsi più di un secolo fa (1908) nei depositi del Persephoneion in località Mannella, ricostruendo in modo sistematico il linguaggio iconografico relativo al percorso nuziale della ragazza locrese, disponendo le celebri tavolette di terracotta come fossero una serie di sequenze di fotogrammi da “cinema muto”, privilegiando cioè l’elemento archeo-visivo, a scapito di quello archeo-sonoro, contenuto nei reperti archeo-linguistici del lessico greco-bovese: i cosiddetti “dorismi”. Hanno così trascurato, a nostro avviso colpevolmente, qualunque confronto o raffronto con la lingua e la cultura vivente dei Greci di Calabria, dimenticando e talora fingendo di non sapere che i veri protagonisti di questo popolarissimo “film” a puntate, prodotto intorno al VI-V sec. a. C. dagli artigiani della coroplastica italogreca, siamo stati noi grecanici, appartenenti culturalmente e territorialmente alla Chora locrese. Da noi, come a Locri, il matrimonio costituiva il momento culminante della “svolta” sociale femminile, determinando il passaggio di status della fanciulla dal mondo dell’infanzia a quello dell’età adulta. Da noi dunque bisogna partire, e chiunque voglia decifrare il codice ermeneutico di questa singolare “religiosità minuta” , non può evitare di aggiungere alle immagini dei pinakes, l’audio con i fonemi dorici della glossa bovese: la lingua delle classi subalterne del territorio rurale locrese. Si eviterebbero in tal modo numerosi “fraintendimenti visivi” ed errori interpretativi.
Un caso emblematico di “fraintendimento visivo” su cui riflettere è sicuramente quello dei pinakes appartenenti al gruppo denominato “cattura della cicala”, secondo la nota classificazione fatta da Paola Zancani Montuoro e accolta da Mario Torelli , degli esemplari riportati nelle seguenti illustrazioni:

pinakes 1

Noi tuttavia disponiamo di fondati elementi per affermare che l’insetto ritratto nella fig. 1 non è una cicala, bensì una cavalletta, che nulla ha in comune con le cicale in avorio trovate nelle tombe infantili nella necropoli di contrada Lucifero o con il tipo della cicala in terracotta di Lavinio, offerta alla dea Minerva . Ciò, in primo luogo, perché si vede chiaramente ad occhio nudo che le zampette posteriori dell’insetto in questione sono quelle poderose di una cavalletta che, a differenza della cicala, può spiccare con notevole destrezza lunghi salti anche senza l’ausilio delle ali; e secondariamente, perché la cavalletta qui “inquadrata” con la fanciulla, in una sublime suspense filmica, è somigliante ad altre famose riproduzioni di cavallette, circolanti in Magna Grecia all’incirca nello stesso periodo, come ad esempio quella impressa nello statere d’argento metapontino della fig. 3 sottostante:

moneta

Del resto, la cavalletta si presta meglio della cicala a simboleggiare (per il suo balzare sempre in avanti e mai indietro) il rito di passaggio matrimoniale al quale la fanciulla locrese (pinax fig. 1 e 2) si prepara mentalmente e fisicamente a prendere parte, sin da giovanissima, mediante il gioco della “cattura della cavalletta”; non va trascurato inoltre un altro importantissimo dato lessicale: la giovane cavalletta dalle ali ancora inattive, nella lingua greca è tuttora chiamata nymphe (νύμφη), “sposa”, e questo appellativo ci riporta nuovamente a una forma di religiosità popolare pagana, preesistente in area greca, identica a quella rappresentata nei pinakes esaminati. Comunque, la parola chiave per completare il nostro discorso iconimico sulla cavalletta è la parola “trasformazione”. Come avviene alla giovane locrese, che da kore (fanciulla) si trasforma in gyne (donna-sposa), dopo aver abbandonato al tempio una parte preponderante ed esclusiva di sé (i giochi e i costumi infantili), così accade anche alla cavalletta, che si trasforma definitivamente in un essere compiuto in natura, solo dopo aver abbandonato il suo esoscheletro. Questa “prodigiosa” trasformazione-rinascita sta probabilmente alla base della denominazione a fata (la fata), presente in Calabria a Conidoni di Briatico (VV) ; mentre a Ferruzzano, Sant’Ilario e Stilo (RC) con l’espressione a spica da fata (la spiga della fata) s’intende una determinata “specie d’orzo selvatico” , in piena rispondenza analogica con l’immagine del succitato statere d’argento di Metaponto, raffigurante nella parte anteriore la spiga d’orzo e, a destra, la fata/cavalletta (fig. 3). In definitiva, come aveva già acutamente osservato Giovanni Alessio, in un interessante saggio del 1939, in Calabria la cavalletta ha la prerogativa di essere (insieme alla mantide) “ideologicamente” associata quasi esclusivamente a nomi e antroponimi femminili (Caterina, Margherita, Giamantissa, fata, signora) . Abbiamo quindi a questo punto dimostrato che lo stadio zoomorfico della fanciulla/cavalletta locrese è determinato, sul piano analogico, dalla comune condizione di nymphe. La giovane sposa vede nella piccola cavalletta un’entità benevola e sacra, che propizia con la sua cattura il raggiungimento dell’agognato traguardo: le nozze al cospetto della dea cittadina Persefone e di altre “divinità garanti”, Dioniso in primis, qui evocato per il tramite della maestosa vite su cui posa la cavalletta. Ebbene, se le nostre osservazioni sui pinakes locresi sono corrette, riteniamo di avere ormai individuato il nome greco e grecanico di questa cavalletta della vigna. Si tratta di un vocabolo appartenente all’antica lingua dorica: attèlabos (αττέλαβος) , da cui discende il dorismo bovese astàlacho (αστάλαχο) oggi utilizzatο con il “generic taxon” che lessicalizza anche altri tipi di insetti acridi e locuste.
Che vi sia una speciale predilezione della cultura popolare in ambito dorico-locrese per la figurazione artistica del gioco fanciullesco della cattura della cavalletta della vigna, è un dato di fatto confermato anche da Teocrito, nell’Idillio primo, ai versi 50-53, dove viene descritta una scena di caccia alla cavalletta della vite, affine a quella del nostro pinax locrese: in una coppa di legno (kissybion) magistralmente istoriata, un ragazzino è ritratto nel preciso istante in cui, totalmente assorto nel suo lavoro creativo, costruisce una trappola rudimentale e “intreccia con gambi di asfodeli un bel retino per le cavallette, legandolo col giunco”. L’asfodelo – nel greco bovese spàlassi (σπάλασσι) – è adoperato ancora oggi dai pastori grecanici per costruire recinzioni per animali domestici. Recinti, trappole e gabbiette rientrano nello stesso ambito di competenza del piccolo homo faber grecanico che impara, giocando alla cattura delle cavallette, le tecniche costruttive più valide per la sua futura attività di allevatore e, magari, anche quello che potrebbe essere il suo primo mestiere, come si evince dal cognome calabrese Catricalà “costruttore di catriche, trappole”. Pertanto, la fata/cavalletta locrese, attraverso il gioco trasforma non solo le fanciulle in donne, ma anche i bambini, in uomini adulti.

Pasquale Casile