JM: Intanto complimenti per il libro. Io appena l’ho letto sono rimasta davvero estasiata. La prima domanda che viene spontaneo farsi è: quanto c’è di autobiografico in questo libro?
PMP: La maggior parte di ciò che ho scritto. Diciamo che parla della mia storia, di quella dei miei genitori, questa parte è vera. Sia ciò che narro dell’ Iran che in Italia. Invece la figura di Setareh, mia cugina è l’insieme, l’incarnazione di tante donne che nella storia iraniana hanno e continuano a fare la differenza.
In qualche modo vuole essere anche un po’ il mio alter ego del: se fossi rimasta in Iran, cosa sarebbe successo?
JM: Personalmente mi sono affezionata tantissimo alla figura di Setareh
PMP: Sì è proprio quella la figura che piace di più.
JM: L’evento scatenante che ti ha convinta a condividere la tua voce, la voce delle donne iraniane sui social, che è un’iniziativa davvero importante, qual è stato?
PMP: È stato proprio il 23, 24 settembre del 2022 perché prima, sì, facevo divulgazione, ma su altri temi. La presenza dell’Iran c’era solo da un punto di vista culturale. Però poi nel momento in cui ho visto che c’era una disinformazione, soprattutto distorsione mediatica di quelle che erano le vicende che stavano accadendo in Iran, come ad esempio la questione del velo, che non è per il velo in sè che si è scatenata tutta quella guerriglia. Sono 45 anni di oppressione, di persone che continuano a morire per la libertà. Non era il momento che tutto il mondo ha visto, solo in quel momento, quindi ho deciso, insieme ovviamente alla mia famiglia, di parlare, nonostante ciò mi costringa a non poter tornare sostanzialmente mai più in Iran.
JM: È stata una decisione davvero molto forte. Proprio a proposito della “questione velo” è stata un’informazione che ho scoperto seguendo le tue interviste, il fatto che non è una legge imposta dalla religione, bensì dallo Stato. Questa cosa non la conoscevo. Infatti ho cominciato a seguirti sui social, ho guardato tutte le tue interviste dopo averti vista a Sanremo. Sono proprio rimasta colpita, perché a me interessano tantissimo i temi sociali. Soprattutto questi avvenimenti che accadono a due passi della nostra di realtà e che noi non conosciamo.
Un’altra cosa che mi ha incuriosito molto, tu hai fatto diverse lotte contro la censura in Iran.
In questo momento, secondo te, è cambiato qualcosa da quando hai iniziato a portare avanti questa lotta contro le censure che impone il regime iraniano?
PMP: No, non è cambiato nulla se non che adesso c’è dal punto di vista mediatico, soprattutto occidentale, l’indifferenza su quello che sta accadendo internamente. perché è più importante l’escalation possibile che potrebbe scatenare l’Iran, ma che stiamo vedendo, in realtà non sta facendo perché non ha proprio la forza di farlo. Quindi l’Iran sta cavalcando l’onda di questo suo “coltello dalla parte del manico” che riesce a controllare e gli torna utiled per le negoziazioni che sta facendo. Ma allo stesso tempo solo in una settimana, ad esempio, abbiamo avuto in 24 ore 36 impiccagioni.
Questo passa tutto in secondo piano, anzi non gli viene neanche più data importanza perché è più preoccupante un possibile attacco che l’Iran può fare. ma che abbiamo visto non fa in realtà. Nel mese di marzo e ora settimana scorsa, ha fatto qualche lancio scenografico dentro Israele, che tra l’altro era un deserto che non ha causato niente. Quindi è solo una sceneggiatura che mettono in piedi per tenere alta l’attenzione ma su se stessi, su altre cose, non su quello che succede internamente e non su quello che il popolo iraniano sta portando avanti disperatamente da 45 anni.
JM: Un po’ la colpa secondo me è proprio dei media, perché io scrivo da quando ero proprio piccolina, però le forme di pressione sul giornalismo e sulla libertà di stampa che stanno diventando sempre più evidenti, mi portano a pensare che, è la mia opinione, se la situazione continua così sarà difficile operare liberamente la mia professione, anche qui in occidente. Speriamo si interrompa questa deriva verso la censura …
Molto spesso tu parli di terza cultura, che è un altro termine che ho conosciuto seguendoti.
Secondo te l’Italia è pronta a questa “terza cultura”? Riesce a fare integrare la terza cultura all’interno proprio dello Stato?
PMP: Neanche i ragazzi definiti di terza cultura sanno che sono ragazzi di terza cultura in realtà perché non c’è neanche una formazione che viene fatta sia dalle famiglie che dalle scuole. Quindi sia da chi arriva o chi nasce e chi ospita o dovrebbe facilitare la maggiore integrazione.
Quindi parlarne, cercare di portare l’esempio pratico, era proprio l’intento di far capire che si può pensare in due lingue, si può parlare in due lingue, si può avere entrambe le culture senza dire quale è migliore dell’altra, senza vergognarsi dell’altra perché purtroppo si innesca con la vergogna e lo trovi in comune con tantissimi altri ragazzi.
Però è importante dire che vanno conservate entrambe e soprattutto far capire a chi ci governa in questo momento che hanno avuto delle uscite vergognosissime sulla percentuale di stranieri nelle scuole o sui matrimoni misti, sono tutte cose veramente vergognose che in altri paesi europei per fortuna non vediamo perché c’è stata una diversa storia di migrazioni.
Però oggi in Italia secondo me anche le Olimpiadi sono state un bellissimo momento grazie al quale si è vista l’odierna realtà italiana, perché nella nuova Italia questi atleti non sono stranieri, sono italiani, sono nati e cresciuti qui; la loro prima lingua è l’italiano, la cucina che preparano è italiana. Quindi continuare a chiamarli stranieri, continuare a parlare di una buona integrazione, vuol dire continuare ad accoltellare in maniera, anche a volte volontaria, quelli che sono i sentimenti e l’evoluzione culturale che invece tutto il paese dovrebbe dare per scontato.
JM: Il problema è che l’Italia viene considerata uno stato moderno ma nella realtà non lo è. Le diverse aree geografiche non sono unite tra loro. Si pensi già alla moltitudine di differenze tra nord e sud. Culturali, di servizi primari, sanitari e molto altro. Ho vissuto diversi anni in Toscana, a Pisa, mi sentivo continuamente in uno stato a sé perché i calabresi non sono visti di buon occhio. Soprattutto a Firenze dove studiavo. Quindi ho notato queste differenze evidenti già tra nord e sud d’Italia. Ci reputiamo uno stato moderno, unito, ma non lo siamo.
E l’idea di scrivere il libro?
PMP: Io da sempre avrei voluto raccontare la mia storia e togliermi qualche sassolino dalla scarpa, come ad esempio i momenti vissuti a scuola, il famoso 11 settembre del 2001, tutto quello che mi ha fatto male ma che nel contempo mi ha fatto anche bene. Poi però intrecciando tutto questo con la storia iraniana, quindi spiegare perché in Iran succede tutto quello al quale stavamo assistendo ma adesso non posso fare più perché non vi viene dato spazio, soprattutto raccontare un Iran dal punto di vista di un millennial perché nell’immaginario comune siamo ancora rimasti ai libri classici sull’Iran, dove si parla ad esempio delle donne che si rinchiudono in casa per leggere libri stranieri, cosa che già dagli anni 90 non accade.
Sicuramente è importante l’eredità dei classici che raccontano l’Iran ma è giunto il momento di andare oltre e spiegare che l’Iran non è un paese arretrato, anzi è estremamente sviluppato, dove le donne sono tra le più acculturate, tra le più laureate, specializzate, quindi stiamo parlando di una realtà totalmente diversa da quella che si vede, che nell’intera area geografica tra l’altro si distingue molto.
JM: Le donne sono anche molto combattive, per questo il tuo libro mi ha colpita tantissimo. Una parte che particolarmente mi ha ferita è quella in cui racconti gli accadementi scolastici tuoi dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre. Hai scritto che la professoressa ti ha interrogata sul perché “voi arabi” avete attaccato gli Stati Uniti ed è stata una cosa bruttissima da leggere. Mi ha colpita particolarmente anche il fatto che nel libro la piccola Pegah ha voluto cambiare il suo nome in Aurora quando è arrivata in Italia , a voler cancellare una parte della sua cultura, della sua vita, delle sue origini. Ciò mi ha fatto pensare alla frase di una delle canzoni di Giorgio Gaber: « io non mi sento italiano, ma per fortuna purtroppo lo sono» che spesso sento mia.
Quindi è capitato anche a te di pensare a questa frase pensando a quello che ti stava succedendo?
PMP: Sì, quando mi è arrivata la cittadinanza per esempio i miei genitori erano contenti, ma io sono sempre stata italiana, quindi che me l’abbia riconosciuto lo stato non me ne fregava in quel momento, ero già molto attiva nel sociale, rappresentante degli studenti all’università; ero già incazzata e quindi questa incazzatura l’ho portata avanti. Che poi è quella famosa rabbia che ho ereditato soprattutto da mia madre che ha fatto però evolvere da questa rabbia qualcosa di buono.
JM: Ho letto il tuo libro in un momento particolare, dopo aver concluso un’ altra lettura molto forte: «Ogni mattina a Jenin» diSusan Abulhawa. Sono tutte realtà che io non conoscevo e mi sono sentita sinceramente ignorante.
PMP: Purtroppo la televisione, i media, anche la scuola non ne parlano, non ci fanno studiare neanche la geografia che non sappiamo cosa sia. Si fa fatica ancora a cercare le capitali, anzi ci si fissa proprio sulle capitali e non sull’insieme delle storie della geopolitica internazionale che ha molto più urgenza delle capitali di essere capita. Oggi stiamo assistendo in tutto il mondo a delle guerre che stiamo vivendo sulla nostra pelle.
(Nella foto Jessica e Pegah)