“Incomincio subito con un chiarimento lessicale: in Calabria la parola che li definisce non si pronunzia con una “f”, ma con due. Abbiamo così “maffia” e “maffiosi”. Col raddoppiamento della lettera si vorrebbe imprimere maggiore forza espressiva al fatto e a chi lo eseguisce […]” – Mario La Cava I miei maffiosi, Il Giorno, 3 ottobre 1975.
Spesso, nel leggere gli articoli di cronaca vi è la sensazione di rimanere fermi alla pura notizia, fredda, delineata magistralmente dal professionista il quale si attiene alla regola giornalistica del reportage. Eppure, nel rileggere gli scritti di Mario La Cava, questa volta in veste di giornalista, la cronaca riesce ad andare ben oltre la parola portando il lettore a rivivere ogni singolo passo, sentimento, odore e percezione vissuto dal suo autore. È questo il vero cronista: un uomo che dettaglia la realtà illustrando la notizia con le sue sfaccettature, analizzandola e porgendola nelle mani del pubblico in maniera talmente semplice da suscitare la riflessione filosofica che si cela tra le righe dei brevi articoli.
I miei maffiosi (Hacca Edizioni) di Mario La Cava appare sulla scena grazie ad un lavoro certosino fatto su alcuni dei pezzi più significativi dello scrittore bovalinese e che è stato presentato sabato scorso presso il Caffè Letterario Mario La Cava alla presenza del direttore editoriale Riviera Ilario Ammendolia e di Fulvio Librandi, docente dell’Università della Calabria e autore della post-fazione del libro.
Dice bene Vito Teti, che firma la prefazione de I miei maffiosi, quando scrive che questa raccolta di articoli è “un’etnografia dall’interno”, uno studio critico-sociale e filosofico in cui emergono i caratteri, il linguaggio, persino corporeo, e i codici di comportamento di ogni singolo uomo. Si tratta esattamente di ventiquattro articoli che vanno dal 1970 al 1984, gli anni bui dell’Italia tutta, e che segnano il passaggio o meglio l’evoluzione di una mafia rurale quasi “umana” a quella che diverrà poi la protagonista dei sequestri di persona. La Cava si fa interprete di una realtà difficile da comprendere, collocandosi all’interno di una tradizione territoriale nella quale la convivenza naturale con i maffiosi diviene punto di svolta per tracciare il profilo di una regione che fatica ancora oggi ad essere accettata nella famigerata Unità d’Italia.
I mafiosi hanno sin da subito occupato i romanzi dell’autore: basti pensare a I fatti di Casignana (Rubbettino) dove si vantano di essere sopravvissuti alla guerra grazie al loro coraggio, dove prendono eroicamente le parti dei contadini nella lotta ai diritti della terra o si alleano con i padroni e i fascisti i quali ben presto riescono ad emarginarli per garantire il loro ideale di patria.
Da testimone e osservatore della realtà La Cava si interroga sulla nascita del fenomeno mafioso o meglio del mafioso in quanto uomo e la risposta che si dà è effettiva a soddisfare la turbolenta questione dell’intellettuale: “Rassomiglia a quella dei poeti che per diventare tali, cioè per essere capaci di cantare a voce spiegata, debbono conoscere molte cose: soprattutto la vita. Anche i mafiosi direi che debbono conoscere la vita: la vita delle desolate terre dalle quali provengono”. E così l’evoluzione della ‘ndrangheta viene affidata alla storia nazionale e regionale, ad uno Stato incapace di difendere le sorgenti del crollo economico o a promuovere la trasformazione.
C’è chi sostiene che la mafia non esiste come la barista incontrata a Gioia Tauro durante gli anni della costruzione del V Centro Siderurgico, un articolo questo, apparso il 4 gennaio 2003 su Mezzeuro, e che leggendolo ci riporta alla serie evento del 2016 firmata da Pif. La Cava si insinua inoltre tra le leggi politiche dei mafiosi i quali “anche senza aver letto Machiavelli, guidano in ogni caso la loro condotta”, riesce a comprenderne i codici di comportamento seppur sbiancando in viso quando parla con coloro che appena usciti trionfalmente dal carcere si congratulano con lui per i suoi articoli.
Come Verga, La Cava sa che qualcosa è andato male sin dal principio nel suo Sud spezzato dalle industrie del Settentrione che hanno sottomesso i calabresi e meridionali tutti. Gli intellettuali, da Alvaro a Strati e Perri sono i primi a comprendere la mafia, indagandone le origini storiche e sociali, accompagnando la sua evoluzione lungo il tempo. Sono loro ad analizzare il complesso meccanismo della ‘ndrangheta che si divide in opposte visioni tra Nord e Sud: essi, gli scrittori, si pongono al centro della visione nazionale del fenomeno mafioso avendo una prospettiva completa che li aiuta a percepire lo sviluppo del comportamento e della ratio di coloro che dalla campagna si sono insediati in tutti i campi della comunità italiana, dalla politica alla medicina, dalla giurisprudenza all’ingegneristica: “Sono spesso di origine contadina. Da contadini hanno appreso che con la zappa mai avrebbero potuto mutare il loro stato, essendo sottoposti, hanno visto che la condizione di chi comanda è migliore”.
La Cava con grande umiltà e profonda attenzione ingloba nei suoi scritti la descrizione del progresso fisiologico e psicologico della mafia: la coscienza sta al centro dei suoi scritti, egli ha una visione macrouniversale del presente e ancora una volta si afferma precursore di un genere che oggi sta scalando le classifiche editoriali.
Sono trascorsi cinquant’anni dalla pubblicazione del primo di questi articoli, eppure non stupisce come da allora le scene di vita quotidiana dipinte da La Cava non siano mutate affatto anzi rimangono vicine a noi più di quanto possiamo immaginare.
Cristina Caminiti