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Avevano ventidue anni, Sara Campanella e Ilaria Sula. Due nomi che ora appartengono alla cronaca nera, ma che fino a pochi giorni fa erano vite in cammino: studio, relazioni, desideri. Due giovani donne che, come tante, hanno incrociato uomini incapaci di accettare il limite, il rifiuto, la libertà altrui. Uomini che non hanno esitato a distruggere ciò che non potevano controllare.

 

Ilaria è stata accoltellata a morte dal fidanzato. Il suo corpo è stato abbandonato in una scarpata, come si scarta qualcosa di rotto. La madre dell’omicida, interrogata dai giornalisti, ha ritenuto di dover precisare che Ilaria “lo distraeva dagli studi”. Nessuna parola per la vittima. Solo una giustificazione, implicita e terribile.

 

Sara è stata uccisa per strada da un collega che da tempo la importunava. Non lo aveva denunciato. Lo aveva respinto con misura, con quella gentile fermezza che molte ragazze ancora ritengono necessaria, per evitare di essere accusate di esagerare. Negli audio diffusi dopo la tragedia, la sua voce è calma, civile, limpida. Nulla, però, ha fermato la furia omicida. E secondo quanto emerso, la madre dell’assassino avrebbe cercato di agevolarne la fuga.

 

Di fronte a fatti tanto crudi, ciò che sconcerta è la postura assunta da alcune figure genitoriali. Non il dolore per la devastazione compiuta, ma la preoccupazione di proteggere l’aggressore. Una protezione che non è solo istintiva: è culturale. È il riflesso di un sistema che educa i figli a considerare l’amore come possesso, il dissenso come offesa, la donna come variabile da gestire, non come soggetto autonomo.

 

Arianna Farinelli — scrittrice e docente universitaria a New York — ha scritto che “troppi maschi restano prigionieri di vecchi retaggi”. È vero. Ma quei retaggi non vivono nel vuoto. Sono trasmessi, spesso con dolcezza inconsapevole, a tavola, in salotto, nei sottintesi quotidiani. Sono rafforzati da madri che difendono, da padri che tacciono, da adulti che preferiscono giustificare piuttosto che interrogarsi.

 

In un’Italia che si illude di essere emancipata, la libertà femminile continua a fare paura. Una ragazza che decide per sé, che ama con misura o si sottrae con decisione, viene ancora vista come provocatoria, disturbante, fuori posto. E quando cade, ci si affretta a spiegare. A ridurre. A spartire le colpe.

 

Non è più tempo di silenzi. Né di indulgenze. Chi giustifica, chi protegge, chi distoglie lo sguardo è parte del problema. E finché non romperemo anche questa rete di complicità — intima, familiare, “affettuosa” — non basteranno né le leggi, né l’indignazione.

 

Oggi i nomi sono Sara e Ilaria. Ma domani potrebbero essere altri. Altre voci interrotte. Altri sogni buttati via.

 

Deborah Serratore

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