È mettendo giù la maschera e uscendo dalle scene che l’uomo si rivela in tutta la sua reale fragilità.
Ospite ieri sera del Caffè Letterario Mario La Cava è stato Santino Salerno, scrittore e critico letterario che ha curato la pubblicazione del libro Cinquanta lettere a Mario La Cava edito da Città del sole. Si tratta di una raccolta o meglio un carteggio tra il giornalista Domenico Zappone e lo scrittore Mario La Cava durato ben ventisei anni, dal 1950 al 1976.
Purtroppo la raccolta non è completa, in quanto Zappone al contrario di La Cava non ha avuto la cura di conservare le risposte dell’amico e collega. La ricostruzione dell’epistolario infatti è stata possibile grazie al cospicuo archivio curato da Rocco La Cava, figlio dello scrittore bovalinese.
Questo scambio di lettere rappresenta la spaccatura di quegli anni tra i centri culturali che si erano istaurati dalla Campania in sù e le provincie in cui gli intellettuali non riuscivano a trovare un posto nella lunga produzione letteraria italiana. È proprio questo il tema principale che traspare all’interno della raccolta e il profondo malessere che attanaglia in particolare la personalità di Zappone. Al contrario di Mario La Cava, – “scrittore europeo” come viene definito dallo stesso Salerno, conosciuto negli ambienti intellettuali, viaggiatore instancabile che continua a scrivere pur rimanendo nel piccolo paese calabrese – Zappone mostra quasi una resa di fronte alla modernità che in quegli anni irrompe in Italia. Egli rappresenta l’isolamento dell’intellettuale meridionale rispetto alla cultura centro urbana, un isolamento che pone la Calabria come una terra che fatica a trovare posto nel mondo letterario, nonostante sia affollata da intellettuali, scrittori e giornalisti che hanno dato un peso alla cultura meridionale. Dalle lettere vengono fuori i caratteri diversi, contrastanti dei due uomini: La Cava nonostante le difficoltà della provincia non accenna mai alla volontà di arrendersi all’isolamento, mentre Zappone cerca continuamente aiuto, elemosina approvazione, quasi incapace di relazionarsi con il tempo a lui contemporaneo.
Zappone si mostrava al pubblico calabrese come un personaggio istrionico, sicuro di sé, spavaldo, un personaggio pirandelliano portatore di una maschera sociale che nascondeva un uomo riverso nella totale malinconia e profonda sensibilità.
Non era un uomo del suo tempo, Zappone, un tempo che correva troppo veloce, caratterizzato dal boom economico, i Beatles, le metropolitane, il chiacchiericcio continuo della gente. Non era un corridore adeguato, bensì un uomo riflessivo, un pensatore che rifiutava la corsa contro il tempo e questo si riversa anche nella sua produzione. Sognava la gloria, ma senza essere in grado di tenere testa ai ritmi della città nonostante gli incitamenti di La Cava che lo spingeva a consolidare i rapporti sociali, a tenere testa alle grandi menti intellettuali, a rafforzare il carattere togliendo la maschera che lo contraddistingueva. Questa sua duplice personalità si riversa anche nella sua prosa: giornalista per Piccolissimo, Il Giornale della Sera, Giornale dell’Emilia, Giornale d’Italia, collaborò anche per la radio con la sede di Rai a Cosenza. Aveva fatto di tutto per farsi conoscere, anche inventare pezzi di cronaca con tocchi di ironia, e storie locali che avevano attirato giornalisti di tutta Italia, senza però mai riuscire ad essere accettato dalle grandi testate nazionali.
A Roma, quando tentò di fare carriera, perse invece la sua identità riversando su di sé una melanconia che lo avrebbe portato al suicidio. Forse fu proprio questo il punto di totale rottura con la realtà che Zappone rifiutò completamente. leggendo i suoi scritti si denota un’eleganza stilistica, una prosa scorrevole, piacevole, capace di dipingere scene con le parole. Tuttavia in ogni suo scritto si nascondono indizi della sua ossessione: tema ricorrente è l’assurdità delle cose, la morte, la fugacità del tempo, tutti elementi che denotano una personalità fragile, sensibile e che mai nessuno era stato in grado di comprendere.
Santino Salerno racconta come nel leggere le lettere del giornalista, ha riscoperto l’intimità di un uomo fragile, la sorpresa di uno scrittore dall’animo gentile che ha faticato a trovare la strada nel grande caos letterario e che ha voluto uscire dal palcoscenico della realtà così come era entrato, con un unico atto rivoluzionario.
Cristina Caminiti