Continua il Festival del Monologo teatrale all’Ombligo de la Luna di Roccella, il 15 novembre sarà la volta del workshop di Nino Racco. Vivacità e acume le caratteristiche del suo lavoro, abbinate ad una sensibilità e capacità tecniche che si intuiscono nel suo lavoro ma che rendono lo stesso così scorrevole e facile da recepire che ogni fatica nella preparazione della piéce non traspare sul palco. Lo spettatore riceve con scorrevole partecipazione la prima sensazione del pezzo cogliendo senza sentirsi appesantito, il messaggio più profondo del suo lavoro, il messaggio più ricercato e attento del suo lavoro.
Trent’anni di teatro alle spalle e un amore per i cantastorie popolari siciliani fanno di Nino Racco un personaggio unico nel panorama teatrale nazionale. Allievo del grande regista polacco Jerzy Grotowski, una delle figure di spicco dell’avanguardia teatrale del ‘900, Racco lasciò una promettente carriera di cantante e gli studi di filosofia, conclusi poi qualche anno più tardi, per abbracciare con successo l’amore per il teatro.
Un percorso fatto di mattoni messi insieme a costruire una carriera complessa e completa, teatro, piano bar, cantastorie, in quale di questi ruoli ti senti più a tuo agio?
«Ho Iniziato a fare teatro a 24 anni, è un arte, una disciplina più completa che è quella che prediligo. Mi coinvolgeva di più rispetto al ruolo di cantante, dopo che a Roma avevo frequentato l’ambiente discografico che mi sembrò dispersivo. Decisi di apprendere un mestiere, un’arte e di studiare per diventare un bravo attore. Avevo avuto varie proposte nel mondo della musica, compresa jazz e lirica. Ho avuto tra i miei maestri o registi dell’Est Europa (in primis Grotowski) e la mia formazione è tutt’altro che provinciale, poi ci fu l’incontro con la figura del cantastorie, un’avventura iniziata e mai finita. Il teatro ha molte sfaccettature e nella figura del cantastrorie siciliano ho intravisto tutta la tetralità e ho realizzato, col tempo, la fusione tra la figura del cantastorie e quella dell’attore classico, avviando, tra l’altro le attività del Piccolo Teatro Umano a Roccella».
Qual è la principale dote che serve a chi deve condurre un monologo teatrale?
«Il cantastorie è uno che fa monologhi e il suo stile comporta la fusione tra cantato e recitato. Serve anzitutto la capacità di essere visionario che è una delle essenze dell’arte. Chi si appresta a fare un’opera d’arte deve avere delle visioni dentro e poi gli strumenti artigianali per tirare fuori queste visioni e generalmente è il regista che lo aiuta. Deve fare vedere altri personaggi, paesaggi, epoche diverse. Non si può improvvisare nulla a teatro».
Quanto conta il feeling col pubblico?
«Conta soprattutto la sensibilità, dalla capacità di sentire che fa il paio con l’arte che si affina studiando. Anche Totò e Alberto Sordi studiarono parecchio, anche se ai tempi dell’avanspettacolo italiano, un’epoca nella quale si facevano due-tre spettacoli al giorno e imparavano molto. Anche loro ebbero una scuola con i teatri vicino alla stazione Termini intrattenendo i viaggiatori in sosta temporanea alla stazione con gli spettacoli all’Ambra Jovinelli ecc. e non è vero che sono di una categoria inferiore a chi veniva dal teatro classico, perché oltre a studiare partirono proprio dal grande feeling col loro pubblico