di Ugo Adamo (costituzionalista, docente UniCal)
«Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre».
Così recita l’articolo 262, primo comma, del Codice civile; correva l’anno 1942.
La Corte costituzionale si pronuncerà a breve su tale previsione codicistica non solo là dove essa non consente ai genitori di assegnare al figlio, nato fuori dal matrimonio ma riconosciuto, il solo cognome materno, ma anche nella parte in cui stabilisce come regola l’assegnazione automatica del solo cognome paterno. Ora, è probabile che la decisione della Corte di andare oltre la questione per come le è stata posta dal Tribunale di Bolzano – ‘allargando’ il giudizio alla stessa matrice patriarcale che informa la norma (redatta, d’altronde, nella prima metà del secolo scorso) – possa essere ricondotta alla concreta composizione della Corte medesima, insolitamente costituita in una sua parte significativa da giudici donne.
Al di là della decisione che assumerà la Corte costituzionale, qui e ora è interessate notare che essa ha dubitato della costituzionalità dell’art. 262 c.c. nella parte in cui impone come doveroso che il nascituro assuma il cognome del padre. Non è importante, almeno in questa sede, prevedere che il dubbio si trasformi in certezza (con conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale); è importante, piuttosto, sottolineare che esso sia sorto e sia stato rilevato, e questo non è certo poca cosa.
La questione dell’attribuzione del cognome paterno e materno è da qualche anno posta all’attenzione del potere giudiziario.
Nel 2006 (sentenza n. 61) la Corte costituzionale ebbe modo di affermare con estrema chiarezza che la diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica.
Nel 2014 fu la volta della Corte di Strasburgo (Cusan e Fazzo contro Italia) allorquando affermò che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, al momento della nascita, il cognome della madre anziché quello del padre, violava il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare. La Corte europea, nello stesso tempo, lamentava la lacuna presente nel sistema giuridico italiano che avrebbe dovuto essere colmata con una apposita riforma legislativa. È inutile dire che tale riforma non è mai andata in porto.
Nel 2016 (sentenza n. 286), la Corte costituzionale ha finalmente dichiarato incostituzionale l’art. 262 nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno. Quindi, da quell’anno, è possibile attribuire il doppio cognome.
Così ricostruito il quadro normativo, c’è da chiedersi se ad oggi sia possibile attribuire al nuovo nato solo il cognome materno. Questa, d’altra parte, è stata la domanda posta alla Corte con un ricorso presentato nell’ottobre del 2019 da una coppia di genitori altoatesina mossa dall’intento di preferire quello fra i due cognomi che meglio, foneticamente, si legava al nome del figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto. Ed ancora, è possibile non attribuire automaticamente il cognome del padre? Questa la domanda che ha posto a se stessa la Corte (nella composizione di genere richiamata) lo scorso 14 gennaio.
Non si tratta di questione di poco conto, di ‘lana caprina’, ma di un argomento che riguarda le fondamenta stesse delle relazioni fra uomini e donne, ovverosia se queste si pongano su un piano di parità o meno.
Molti potrebbero essere portati culturalmente a considerare naturale, prima ancora che legale, il fatto che il cognome attribuito al nascituro sia in primis quello paterno e che quello materno si possa (eventualmente) aggiungere. Ma perché generalmente non si è portati a pensare in modo diametralmente opposto? Perché si è figli del proprio tempo e della storia percorsa.
Ma ora è anche il tempo di cominciare a pensare che il cognome, che definisce la stessa costruzione dell’identità personale, non sia patriarcalmente imposto, ma possa essere liberamente scelto dalla madre o dal padre, o ancor meglio da entrambi i genitori, e che sia comunque una libera scelta dettata da qualsivoglia motivazione, anche solo di tipo fonetico (!).
La questione ora è posta dalla stessa Corte costituzionale, che potrà decidere se nato un bambino o nata una bambina a questo o a questa possa non attribuirsi automaticamente il cognome del padre.
La Corte è giunta a sollevare dinanzi a se stessa la questione – e qui finalmente il lettore troverà una ragionevolezza (almeno lo si spera) nelle argomentazioni finora spese – proprio perché in una Corte oggi formata da 15 magistrati, ben 4 sono donne. Pur ribadendo che questa è solo un’ipotesi ricostruttiva, essendo i lavori della Corte coperti da segretezza, si può anche pensare che intorno al tavolo della Camera di consiglio sia emerso un punto di vista mai finora proposto anche perché favorito da una importante presenza di donne, la più alta numericamente parlando dall’istituzione dell’organo, avvenuta nel 1956, e che fino ad oggi ha avuto una sola Presidente donna.
La storia incide sui costumi, sul pensiero, sul diritto e sull’interpretazione. Essa corre più o meno velocemente se a compierla sono insieme gli uomini e le donne o solo gli uomini o solo le donne.
Quando si sostiene che la democrazia paritaria è servente la qualità delle istituzioni democratiche, si vuole, sovente, sottolineare l’importanza che la storia proceda proprio sulle gambe degli uomini e delle donne insieme.
Quanto appena affermato è per mero rispetto del principio di eguaglianza inteso come principio di non discriminazione? Si, ma non solo.
È per un criterio di giustizia, non essendo accettabile che le donne, in quanto tali, siano escluse da alcuni consessi istituzionali? Si, ma non solo.
Direi che il pari riconoscimento fra uomini e donne in ogni ambito istituzionale ha non solo il fine di tutelare, come è evidente, la parità, ma anche, e direi soprattutto, quello di assicurare la qualità della democrazia. Detto in altri termini, l’assenza femminile dai luoghi di discussione impoverisce il luogo della decisione come spazio pubblico dove ha sede lo scambio intellettuale e di esperienze in cui si esprime la cultura di tutta la società, che è composta, per l’appunto, sia di donne che di uomini. Ed infatti, l’assenza delle donne – che non costituiscono alcuna categoria portatrice di interessi particolari, in quanto, costituendo uno dei modi d’essere del genere umano, hanno una rappresentazione di interessi trasversali – ha un precipitato negativo nelle decisioni pubbliche, soprattutto nella misura in cui manca (almeno potenzialmente) la possibilità che una visione più ampia e un altro linguaggio più inclusivo siano esternati e presenti.