Antonella Veltri

 

Chi si occupa di tutela delle donne lo sa, chi lavora nei contesti sociali la conosce, chi legge dei terribili fatti di cronaca legati ai femminicidi sa di cosa si tratta. E’ la rete D.I.Re, donne in rete contro la violenza, la più importante organizzazione di Centri antiviolenza in Italia. Una realtà molto grande ma che, insieme alle altre realtà che si occupano di tutela delle donne vittime di violenza di genere, arrancano nel buio della difficoltà di gestione dei centri e nella difficile aderenza delle politiche e delle culture verso la comprensione della necessaria tutela dei diritti delle donne.

Per la prima si tratta di un semplice calcolo matematico, lo ha evidenziato l’Istat lo scorso ottobre. Meno di un euro al giorno destinato alle donne ospiti dei centri antiviolenza. Doveper sopperire alla carenza di risorse si ricorre con tutto il volontariato di cui si può usufruire.

E ancora, peggiore della fisica mancanza di denaro, è la leggerezza di approccio al tema delle politiche in generale, dove ogni diritto delle donne è come se venisse considerato secondario rispetto ai diritti altri. Come a dire “state meglio rispetto ad un tempo, e adesso volete ancora di più?”. Ammantati da una patina di perbenismo ed empatia di facciata, le istituzioni arrancano nel procedere sulla strada corretta, rallentano, tergiversano. E il mondo femminile combatte, aspettando.

Così, combattente tra le altre, lavora da anni Antonella Veltri, calabrese doc, già fondatrice di D.I.Re, quasi automaticamente presidente,  dopo le dimissioni di Lella Palladino. Una visione nazionale parlando da un contesto regionale, quello dove opera. E’ questo il senso che abbiamo voluto dare alla nostra intervista ad una donna che, per come la conosciamo, marcia diretta nelle sue lotte, senza cercare alibi e analizzando il problema senza contesti fumosi, sarà il suo lavoro al Cnr che la rende così ma a noi va bene, i problemi si risolvono individuandone la fonte e lavorando su questa.

 

Esordisce con una dichiarazione che parla della storia di Dire ma anche della Calabria protagonista – in perfetto trend con il resto delle regioni – di una necessità impellente di rispondere alla richiesta di protezione delle vittime.  “Un compito certo non facile ma responsabilmente accolto perché in continuità con la competenza e l’esperienza acquisita sul campo da quando assieme alle altre donne della mia città abbiamo dato vita al Centro antiviolenza Roberta Lanzino a Cosenza, centro che insieme ad altre associazione storiche del femminismo italiano, hanno contribuito a far nascere D.i.Re”.

 

– Sembra quasi che il compito di salvare le donne a rischio di femminicidio o vittime di violenza di genere sia demandato solo alle donne…vero è che l’accoglienza di una donna vittima può avvenire grazie soprattutto alla presenza di un’altra donna; abbatte ogni possibile blocco, ma sembra quasi di leggere un “laviamocene le mani” dal mondo patriarcale istituzionale. E’ così?

Sostenere una donna che si rivolge a un centro antiviolenza significa dare forza a quella donna, non farla sentire sola, aiutarla a riconoscere la violenza, non dubitare del racconto delle violenze che subisce, accompagnarla se è il caso nel percorso con la giustizia, crederle e darle fiducia. Il piano dell’accoglienza e del sostegno alla donna che si rivolge al centro antiviolenza lo distinguerei dal piano istituzionale, vero fortemente patriarcale e inadeguato, in parziale, frammentario e discontinuo ascolto dei bisogni non solo delle donne ma dell’intera collettività. Non bastono interventi istituzionali a spot in occasione delle giornate del 25 novembre o dell’8 marzo.

La società tutta deve farsi carico del problema, uomini e donne, perché la violenza alle donne è una violazione dei diritti umani, così come riporta la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul, convertita in legge il 19 giugno 2013.

Come ha trovato differente la questione dei Centri Antiviolenza calabresi rispetto alle altre regioni? In termini di organizzazione, sostegno sia pubblico che privato, di coinvolgimento sociale?

Sono stata vice Presidente D.i.Re e socia fondatrice della Rete Nazionale dei centri Antiviolenza. Conosco bene la mia Regione ma so anche che i problemi così come il fenomeno sono trasversali e vanno da nord a sud e da est a ovest con qualche lieve differenza.

Ci sono regioni e aree geografiche del nostro Paese in cui il riconoscimento pubblico e sociale del fenomeno ha consentito nel tempo una presa di coscienza, favorendo interventi istituzionali e stimolando donazioni private ai luoghi di donne che per primi hanno reso possibile che della violenza alle donne se ne parlasse. Manca in generale un approccio programmatico e sistematico che possa dare continuità al lavoro continuo e incessante del Centri antiviolenza, che lavorano in emergenza senza avere la certezza dei finanziamenti necessari per poter accompagnare le donne nel percorso di uscita dalla violenza. I Fondi che il governo stanzia arrivano con ritardo alle regioni e vengono a cascata erogati con ritardo rendendo precaria non tanto e non solo la vita dei centri antiviolenza ma soprattutto delle donne che ai centri si rivolgono. Gli stanziamenti non sono altresì sufficienti per garantire il superamento della volontarietà del lavoro che le operatrici di accoglienza svolgono nella loro incessante attività di ascolto e accompagnamento delle donne. In Calabria la legge regionale di finanziamento ai centri antiviolenza permette lo stanziamento di soli 20mila euro l’anno che sono davvero una cifra irrisoria per poter mantenere le attività di un Centro che spaziano dall’accoglienza, alla prevenzione, alla formazione e all’animazione territoriale.

La prima cosa che ha pensato quando è entrata, per la prima volta nella sua vita, in un centro di aiuto alle donne vittime di violenza

La prima volta è stata al Centro Antiviolenza Lanzino di Cosenza, che ho contribuito a far nascere nel 1988. Il telefono è stato muto per settimane e mi sono chiesta, ci siamo chieste il perché. Abbiamo lavorato fuori dal nostro Centro per mesi e mesi con campagne di comunicazione, con volantini per strada per dire che noi eravamo lì, per le donne per quelle donne che volevano incontrarci, che avremmo mantenuto l’anonimato, la riservatezza, che avremmo praticato l’ascolto empatico senza giudizio, che avremmo dato loro forza, che l’avremmo sostenute per capire insieme come uscire dalla dimensione della violenza. Da allora ad oggi la situazione è cambiata. Il Centro accoglie centinaia di donne l’anno, il telefono squilla. Anche quello delle emergenze.

E quando ha parlato per la prima volta con un uomo violento?

I Centri antiviolenza non incontrano mai il maltrattante. I Centri antiviolenza offrono alle donne uno spazio di ascolto e di sostegno solo alle donne. E’ una scelta ragionata e consapevole del nostro essere di parte. Dalla parte delle donne.

Quanto rimane alta l’attenzione sulla tutela dei bambini, spettatori e spesso vittime dirette loro stessi del violento?

Nei nostri centri e nelle nostre Case rifugio trovano accoglienza anche i bambini e le bambine vittime spesso di violenza assistita. E’ del tutto evidente che l’interesse del minore vieni prima di ogni altro, anche nei nostri Centri. Molto spesso nei percorsi con la giustizia le donne si trovano a che fare con perizie e relazioni che rispondono a logiche di mediazione e di mantenimento dello status quo, spesso situazioni violente. Sovente si fa uso della cosiddetta PAS – sindrome da alienazione parentale, non riconosciuta dalla comunità scientifica e giudicata senza fondamento da una sentenza della Cassazione – utilizzata contro le donne e i suoi figli nei tribunali italiani. L’Ap o ex Pas (Parental Alienation Syndrome), continua a trovare applicazione nei Tribunali italiani durante le cause di separazione e di affidamento dei figli. “Madre ostativa”, “Madre impeditiva nella relazione col padre” questa è l’etichetta cucita addosso alle donne che sono state picchiate e umiliate davanti ai figli anche per anni e quando denunciano invece di ottenere il rispetto dei loro diritti sono ritenute responsabili per le conseguenze che il trauma della violenza ha lasciato nei figli o in loro stesse. L’imposizione a ogni costo dell’affido condiviso espone le donne e i figli all’arbitrio di uomini violenti che vogliono punire la ex che ha osato lasciarli o denunciarli. “Ti porterò via i figli” è sempre stata la minaccia che i maltrattanti rivolgono alle compagne per metterle a tacere.

Quali sono, secondo lei, gli strumenti più efficaci per sostenere le strutture come i Centri Antiviolenza?

Gli strumenti legislativi a disposizione per il mantenimento dei Centri antiviolenza e la Case Rifugio vi sono e vanno applicati con regolarità, prevedendo voci a bilancio adeguate, e soprattutto attraverso una programmazione condivisa con i Centri antiviolenza che oltre ad accogliere e sostenere le donne fanno azione di prevenzione nei territori. Inoltre, bisognerebbe evitare o almeno contenere i cronici ritardi burocratici che accompagnano le procedure di erogazione dei fondi, che rischiano spesso di tornare indietro.

La polverizzazione dei pochi fondi con il riconoscimento e finanziamenti di Centri che hanno caratteristiche distanti dai requisiti richiesti dall’Intesa Stato-Regione, in alcuni territori, penalizza i Centri che invece lavorano con le donne secondo caratteristiche e formalità dovute. Un sistema che a mio avviso va rivisto cercando di evitare campanilismi e logiche clientelari che spesso muovono queste inclusioni.

Cosa occorrerebbe fare ancora prima del servizio di assistenza dei Centri?

I Centri antiviolenza della rete D.i.Re, la più grande organizzazione nazionale che si occupa del tema e che riunisce 80 organizzazione di donne in tutta Italia, non assistono ma promuovono, attraverso percorsi di consapevolezza, la libertà delle donne dalla violenza maschile. In tal senso i Centri della Rete D.i.Re hanno fatto proprie le tre P della convenzione di Istanbul, della Prevenzione, della Protezione, della Punizione, per raggiungere un unico grande obiettivo, eliminare ogni forma di violenza e sopraffazione nelle relazioni di genere. I Centri nelle attività di Prevenzione fanno formazione non solo a tutti i soggetti che sono coinvolti nel percorso di contrasto, ma anche nelle scuole e sul territorio, per superare gli stereotipi di genere e per costruire progetti rispettosi dei diritti di tutte e tutti.

 

Finirà mai?

Il lavoro dei Centri antiviolenza della Rete D.i.Re, formalmente costituitasi circa 10 anni fa , ma di fatto attiva dal 2006, è volto proprio a questo obietivo. Come dire, noi ci siamo perché crediamo che non è con misure securitarie improntate all’emergenza che si può far finire un fenomeno strutturale così radicato, che trova linfa nella società patriarcale che viviamo. C’è bisogno di un impegno collettivo e trasversale di tutte e tutti.

 

Raffaella Rinaldis